LA SIGNORA DELLA PORTA ACCANTO. UN FILM DI FRANÇOIS TRUFFAUT

Cristiana Fanelli • mag 11, 2021
Il celebre film di François Truffaut La signora della porta accanto si apre e si chiude con la stessa scena: una macchina della polizia attraversa le strade della campagna francese. Il finale è lì sin dall’inizio. Con questo espediente la scrittura filmica suggerisce che abbiamo a che fare con un mistero in piena luce, lo stesso che può fare enigma nel nostro quotidiano: il mistero della coppia e il mistero del desiderio, in particolare femminile che talvolta assume coloriture incomprensibili.

«È una storia – dirà Truffaut – vista soprattutto dalla parte della donna. Il problema di fondo però è questo: non esiste un punto di vista esterno per raccontare quello che succede in una coppia di innamorati. L’amore è folle solo negli occhi di chi guarda la passione senza viverla. Chi la vive non si crede folle, anzi non lo è».

Il film racconta dell’incontro tra due coppie di coniugi: Bernard ed Arlette e Mathilde e Philippe. Queste coppie sono sorte sulle scia della passione che aveva unito Bernard a Mathilde e che si era interrotta con un aborto, senza finire davvero. A distanza di otto anni, i due si ritrovano vicini di casa in una tranquilla cittadina di provincia le cui giornate sono movimentate solo da qualche festa e dalle attività del circolo del tennis. Ma questi momenti sociali sono attraversati da un crescente disagio, da un senso di pericolo che rivela come per Bernard e Mathilde sia difficile condividere una logica “normale” (non per caso, sarà dopo uno di questi incontri che Mathilde è ricoverata in clinica).

«Pensavo da molto tempo – ha detto Truffaut – ad un film come questo che rispondesse alla domanda “È possibile vivere due volte una passione d’amore?” Non saprei dirlo di preciso, ma in questo caso ho deciso di sì, fino alle conseguenze estreme».

In questo film infatti la passione di dà come un ritorno. Il passato torna a bussare alla porta, torna nelle cornici di quelle finestre attraverso cui, anni prima, Bernard ha visto Mathilde e se ne è innamorato. Le tracce di quel passato affiorano ora da una serie di fotografie che scandiscono il racconto. La prima foto che Truffaut ci passa è una foto non scattata. Quasi all’inizio del film, un ipotetico fotografo chiama i coniugi per una foto di famiglia, ma ci avverte: la foto non può essere scattata, quella della famiglia ideale è una storia che qui non sarà scritta, non farà sintomo. La seconda foto svela a Philippe (il marito di Mathilde) su quale passato continui a scriversi il presente. L’uomo vuole saperne di più e così fa precipitare gli eventi. La terza fotografia, scattata durante una festa, ritrae Mathilde bellissima e Bernard “con una faccia da funerale” – brama di possesso che si fa insieme esasperata e luttuosa quando urta la propria impossibilità (l’oggetto è perduto). Infine, Mathilde ritaglierà da una fotografia le loro due immagini gettandole nel fuoco – un atto che prefigura l’esito della vicenda e su cui Truffaut getta una strana luce:

«Per me un lieto fine non è una coppia che si ritrova, che si riunisce, ma una coppia che va fino in fondo».
 

Ho trovato nel film almeno due momenti in cui questo andare fino in fondo configura un modo specifico del godimento femminile: il primo di questi momenti è ambientato in un parcheggio sotterraneo. Dopo una serie d’incontri mancati, Bernard è accanto a Mathilde, la chiama per nome e la bacia. Mathilde sviene e, quando si riprende, è spaventata dall’accaduto come se la congiunzione tra la voce dell’uomo che la chiama per nome – perché è questo che qui mi sembra posto in risalto – e le sensazioni del suo corpo portasse in sé la forma di un vuoto, favorisse un’apertura: un venir meno. Il secondo momento è costituito dall’ultima scena, quella in cui la donna, al momento dell’orgasmo, uccide l’uomo e poi si dà la morte.

Mi sembra di cogliere in queste due scene attimi di congiunzione dell’amore con il godimento. Ma: cos’è che chiamiamo amore? Che strade sono quelle in cui si arriva a perdersi (alienarsi) nelle parole di un altro? E perché quello spazio intimo che tanto desideriamo creare diventa il luogo in cui si fa esperienza, attraverso un altro, di qualcosa d’irriducibilmente Altro?

 
Di solito, usiamo la parola amore – l’espressione corrente storia d’amore – per indicare la vicenda complessa tra un uomo e una donna che mette in azione il desiderio e quell’impossibile che sembra così intimo alla sua struttura. Lacan era solito dire che l’amore viene in luogo di quest’impossibile, anzi, che all’amore: «è necessaria questa radice d’impossibile[1]» alla quale lui ha dato un nome.

L’amore è forse amore di un nome? Se Mathilde sviene quando Bernard le sussurra il suo nell’orecchio, Philippe è disperato perché il nome che Mathilde pronuncia in sogno non è il suo. È possibile dar nome alla verità di certi desideri? A detta di Lacan, la verità può dirsi solo a metà (mi-dire), e una divisione è anche quella che attraversa la donna facendo di lei un essere a metà, pas-toute. Quando Mathilde è distesa in un letto della clinica Bernard le chiede: «Devo restare o andarmene?». Mathilde si limita a guardare suo marito dal riquadro della finestra. Bernard traduce “né l’uno né l’altro”. Potremmo situare la posizione della donna entre-deux, tra due, tra Bernard e Philippe come tra due tipi di godimento. D’altronde anche il luogo in cui si trova (la clinica) dispone Mathilde a vedere la vita da una prospettiva insolita: tra dentro e fuori, tra normalità e segregazione, tra stati d’incoscienza (la cura del sonno) e stati di sospensione del farmaco, tra visite e momenti solitari. Tutto succede tra due case, ci ha detto Truffaut.

 
Usciamo dalla clinica e andiamo al circolo del tennis, luogo nevralgico in cui ci si incontra, si stabiliscono relazioni e dove il passato fa ritorno via lettera. Ne è proprietaria Odile Jouve la cui vita presenta molte affinità con quella di Mathilde, affinità che Truffaut annoda attorno ad una macchia di sangue. Come Odile, anche Mathilde è sopravvissuta ad un tentato suicidio e ne porta i segni sui polsi. Odile invece ha una protesi alla gamba, segno fisico di un amore non abbastanza fatale che le ha fatto preferire un salto nel vuoto ad un abbandono che l’ha ridotta ad essere «un pacco di biancheria sporca». Allo stesso modo Mathilde dirà: «Non valgo niente: c’è qualcosa di me che respinge la gente». Può succedere che quando una donna “si abbandona” al proprio desiderio viva l’esperienza di “sentirsi abbandonata” e come “rigettata” – esperienza a cui ciascuna risponde a suo modo: qualcuna potrà andare fino in fondo a questo sentirsi o essere nell’abbandono; qualche altra, come travolta dalla causa feroce della propria sofferenza, potrà a propria volta rovinare tutto, “mandare tutto all’aria” – come si dice.


Entrambe le donne affidano il loro messaggio a quelle canzoni che «tanto più stupide sono tanto più sono vere». Le parole che si addicono ad Odile sono: «Ora mi ritrovo come Edith Piaf, ricorda? Niente di niente e non rimpiango niente». Le canzoni scelte da Mathilde accennano ancora a questo niente, ma lo complicano: Non devi lasciarmi; Lascia che io diventi l’ombra della tua ombra; Senza di te sono una casa vuota; Senza amore non siamo niente. Quel rien che Lacan evoca nell’Etica parlando di un desiderio che, giunto sui suoi limiti, espone il soggetto alla propria mancanza ad essere. «L’amore – diceva – è realmente il mezzo attraverso cui la morte si unisce al godimento, l’uomo alla donna, l’essere al sapere, perciò l’amore non può definirsi che come un fallimento[2]».

Mathilde dice al medico: «Se quel che dicono i libri fosse vero, io dovrei innamorarvi di voi, invece niente. È chiaro che c’è qualcosa che non funziona», ponendogli così una questione solo in apparenza negativa e che tanto spesso affiora – come un nodo essenziale – sul lettino dello psicanalista.

Forse per questo Lacan sosteneva che il transfert introduce all’essenza dell’amore. Sosteneva anche che l’amore è l’amor cortese, quello che detta all’Occidente la grammatica di un linguaggio che molto deve ad Ovidio. E proprio da Ovidio viene l’epigrafe suggerita da Odile: Nec sine te nec tecum, vivere possum, il Né con te né senza di te di chi non può stare né vicino né lontano dall’amato.


Non c’è rapporto sessuale: così Lacan parla dell’impossibile che struttura la relazione tra un uomo e una donna impedendo loro di fare Uno. Impossibilità che si confonde con quella di scrivere il rapporto sessuale perché, nonostante tutto ciò che possiamo inventare, qualcosa tra uomo e donna resta irriducibile ad una scrittura: non fa traccia. E se per Lacan la scrittura è la: «traccia lasciata dal linguaggio[3]», allora è proprio nell’illusione di un incontro di tracce che – a suo dire - si realizza la supplenza a quanto d’impossibile c’è nel rapporto tra i sessi. Tracce, specifica Lacan, di tutto ciò (sintomi, affetti) che segna l’esilio del parlessere da un punto che eccede l’ordine del linguaggio pur essendone effetto. È nel rapporto tra i sessi che si rinnova l’esperienza di quanto per ciascuno resta fuori simbolico – troumatique. Vale a dire che nel campo del sessuale c’è un un trou, un buco, un vuoto, un tassello bianco, rispetto al quale c’è un modo maschio di girare intorno, e c’è l’altro modo che Lacan designa come il modo femmina[4]. Una dissimmetria che differenzia il modo in cui uomo e donna vivono il desiderio, il godimento, l’amore e che rende disarmonica la congiunzione tra i due sessi. All’inizio i protagonisti non arrivavano mai a toccarsi a guardarsi a trovarsi nello stesso momento. Nei dialoghi tra i personaggi c’è una sfasatura che filtra in frasi come: «Stona con l’ambiente. Che è venuta a fare qui questa donna?», oppure «Non eravamo fatti per stare assieme. C’è qualcosa di lei che mi ha sempre irritato», «È il genere di uomo facile da avere, impossibile da tenere»; lui: «Non trovi che ora c’intendiamo meglio?» e lei: «No, no: io non trovo niente e non cerco niente».

 

Eppure, nello spazio di un incontro può sorgere «l’illusione che qualcosa non soltanto si articoli ma s’iscriva, si inscriva nel destino di ognuno, di modo che per un certo tempo, un tempo di sospensione, quello che sarebbe il rapporto sessuale trovi nell’essere che parla la propria traccia e la propria via di miraggio[5]».

 

Lacan consigliava di accostare la questione del non rapporto sessuale «dalla parte delle signore» perché è «con l’elaborazione del non-tutto che bisogna aprire la via[6]». Per un fatto di struttura il desiderio di una donna non è tutto organizzato dalla funzione fallica. Per questa via arriviamo agli ultimi fotogrammi dove, in una casa ormai disabitata, un fantasma si porta oltre la propria cornice e conflagra nel reale.

 

In questa conflagrazione sta forse quel fino in fondo che Truffaut ha chiamato lieto fine e in cui sembra che l’amore si affranchi, tragicamente, dalla sua impotenza. Un amore che infranga questa ignoranza si dispone ad andare oltre le transitorietà delle contingenze, oltre la sofferenza d’incontri sempre imperfetti, oltre le dissonanze e le differenze favorite dal desiderio. Possiamo forse situare qui quello stato definito da Lacan “di oblio di sé” che conferisce alla condotta di chi è “preso” da passione qualcosa di spietato, d’inumano, e non di rado arriva a valicare quella frontiera della seconda morte in cui: «l’uomo aspira ad annientarsi per iscriversi lì come essere. La contraddizione nascosta, la goccia da mandar giù, è che l’uomo aspira a distruggersi nel momento stesso in cui si eternizza[7]».

 

«Data la posizione dei corpi – recita laconico il referto – c’è da supporre che quell’uomo e quella donna abbiano avuto un rapporto sessuale prima di morire». Ma, aggiunge, i due non saranno sepolti nello stesso luogo.

 

[1] J. Lacan, Il Seminario. Libro xxi, Les non-dupes errent (1973-74), inedito, lezione dell’8 gennaio 1974.

[2] Ivi, lezione del 18 dicembre 1973.

[3] J. Lacan, Il Seminario. Libro xx, Ancora (1972-1973), Einaudi, Torino 2011, p. 118.

[4] Ivi, p. 55.

[5] Ivi, p. 139.

[6] Ivi, p. 55.

[7] J. Lacan, Il Seminario. Libro viii (1960-61), Il transfert. Einaudi, Torino 2008, p. 10
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Autore: Miriam Capaldo 26 giu, 2023
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Autore: Miriam Capaldo 15 mar, 2023
"Joyce e Nora: una vera coppia?" Roma, 25-26 marzo 2023
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